IL LINGUAGGIO DELLE IMMAGINI E DELLE EMOZIONI
INTERVISTA AD ALBERTO LUCA RECCHI, ESPLORATORE DEL MARE, FOTOGRAFO SUBACQUEO E SCRITTORE
Alberto Luca Recchi è esploratore, fotografo subacqueo e scrittore, ma soprattutto un narratore del mare. “Ho avuto il privilegio di vederlo prima che fosse ferito dall’uomo. A quei tempi era un paradiso, il mare che avevano conosciuto Cleopatra, Napoleone e Garibaldi. Oggi quel mare non esiste più, e il mio dovere è diventato un altro: non solo celebrarne la bellezza, ma raccontarne la fragilità”, racconta.
Da decenni documenta il mondo sommerso, convinto che la narrazione sia il primo passo per proteggerlo. “Non si protegge ciò che non si conosce”, sottolinea. Ma come si racconta il mare in un’epoca in cui l’informazione è veloce e frammentata? Qual è il ruolo delle immagini, dell’emozione e della divulgazione scientifica nella costruzione di una consapevolezza concreta? In questa intervista affronta le sfide della comunicazione ambientale e il rapporto sempre più fragile tra l’uomo e l’oceano.
Lei viene spesso definito un “ambasciatore del mare tra gli uomini”: si riconosce in questo ruolo? Quali sono, secondo lei, le sfide più grandi nel rendere il mondo sommerso comprensibile e vicino alle persone?
Gli ambasciatori, per definizione, dovrebbero rappresentare e tutelare gli interessi di chi li manda. Io non ho ricevuto alcun incarico, ma il mare mi ha dato un privilegio inestimabile: quello di vederlo prima che fosse ferito dall’uomo.
Ho esplorato fondali ancora intatti, quelli che avevano visto Cleopatra, Napoleone, Garibaldi. A quei tempi, nuotare sott’acqua significava essere circondati da pesci di ogni forma, colore e dimensione. Uno spettacolo meraviglioso.
Sentivo che non potevo tenere tanta bellezza solo per me, e così ho iniziato a fotografare, a scrivere, a raccontare. Volevo condividere lo stupore di ciò che vedevo. Oggi quel mare non esiste più. Il cambiamento è stato drammatico e rapido, e il mio dovere è diventato un altro: non solo celebrare la bellezza, ma raccontare anche la fragilità di questo ecosistema e il pericolo che corre.
La sfida più grande? Far capire che il mare non è solo una distesa blu, ma un mondo complesso, fatto di creature straordinarie che abbiamo il dovere di proteggere. Perché il destino del mare e il nostro sono inscindibili.
La fotografia e la comunicazione visiva sono strumenti potenti per raccontare l’oceano. Quali immagini riescono davvero a catturare l’attenzione e a trasmettere un messaggio forte sulla tutela dell’ambiente marino?
Cinquant’anni fa qualsiasi fotografia subacquea aveva un impatto straordinario, perché nessuno aveva mai visto il mondo sommerso. Quando ero bambino, i pesci si vedevano solo morti, al mercato o nei laboratori scientifici. Poi, all’improvviso, le prime immagini ci hanno aperto una finestra su un mondo nuovo, sconosciuto, affascinante. Anche se erano sfocate e tecnicamente imperfette, sembravano miracoli di esplorazione.
Oggi è tutto diverso: siamo immersi nelle immagini, bombardati ogni giorno da migliaia di foto e video. La fotografia è ovunque, e non basta più semplicemente mostrare per stupire.
Le immagini che colpiscono davvero sono quelle che emozionano e che raccontano storie. Purtroppo, spesso sono le immagini più drammatiche a scuotere le coscienze. Penso ai globicefali massacrati nelle isole Faroe, ai delfini uccisi in Giappone con l’acqua tinta di rosso dal loro sangue. Quelle immagini non hanno bisogno di spiegazioni, sono pugni nello stomaco.
Ma non possiamo affidarci solo alla sofferenza per comunicare. Dobbiamo anche raccontare la bellezza, perché nessuno protegge ciò che non ama. Per questo è essenziale trovare l’equilibrio tra meraviglia e denuncia, tra emozione e consapevolezza.
L’emozione è un elemento chiave nella narrazione della natura. Come si può trasformare l’ammirazione per il mare in consapevolezza e azione concreta per la sua protezione?
L’emozione è il primo passo, ma da sola non basta. Serve una storia, perché sono le storie a toccare le corde profonde delle emozioni umane: stupore, rabbia, gioia, paura.
Un’immagine può colpire, ma una storia resta. Se raccontiamo la storia di un delfino che ogni giorno torna a giocare con un pescatore, o quella di un cucciolo di squalo che lotta per sopravvivere in un mare sempre più povero di vita, creiamo un legame tra chi ascolta e quel mondo sommerso.
Ma c’è un passaggio ulteriore: l’educazione. L’emozione deve portare alla conoscenza, e la conoscenza deve tradursi in azione. Oggi siamo tutti ignoranti nei mondi che non conosciamo, e il mare è ancora un universo sconosciuto ai più.
Dobbiamo raccontarlo non solo per farlo amare, ma per insegnare come proteggerlo.
Il cambiamento climatico sta trasformando gli ecosistemi marini. Qual è il ruolo della divulgazione scientifica attraverso le immagini per sensibilizzare il pubblico su questi cambiamenti?
È fondamentale raccontare, raccontare e raccontare. Perché il mare cambia ma da fuori non si vede.
Un ghiacciaio che si scioglie è visibile e tangibile, impressiona e fa notizia. Ma il mare, anche se devastato, da fuori sembra sempre uguale, una distesa blu immensa e bellissima. Per comprendere il cambiamento, bisogna andarci sotto.
E non basta. Bisogna esserci andati anche prima, perché solo chi ha visto com’era può raccontare com’è diventato. Chi oggi si immerge per la prima volta vede un mare già compromesso, senza sapere quanto fosse più ricco e straordinario solo pochi decenni fa.
Per questo, la divulgazione attraverso le immagini è cruciale: può rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe invisibile.
Viviamo in un’epoca di informazione veloce e frammentata. Come si può comunicare efficacemente la bellezza e la fragilità del mare in un contesto dominato dai social media?
Lo chiede alla persona sbagliata. Io ho abbandonato i social.
Non ho nulla contro chi li usa bene, ma non fanno per me. Ho scelto di dedicare il mio tempo alle persone e ai libri, piuttosto che a scrollare schermi luminosi.
La vera sfida oggi è non perdere la profondità nel mare dell’informazione superficiale. I social ci hanno abituati a contenuti rapidi, facili da consumare e dimenticare. Ma la bellezza del mare non si può ridurre a un reel da 15 secondi. Per conoscerlo e capirlo, serve tempo, serve ascolto.
Forse la chiave è usare i social senza esserne usati, trovando modi per raccontare storie che non siano solo immagini veloci, ma che lascino un segno duraturo.
Guardando al futuro, quali sono le principali sfide per chi racconta il mare oggi? Cosa possiamo fare per rafforzare la connessione tra l’uomo e l’oceano e garantire che la sua voce venga ascoltata?
Dobbiamo iniziare conoscendo gli abitanti del mare.
Sembra incredibile, ma sappiamo più cose sulla Luna che sugli oceani, e persino i pesci più comuni nascondono segreti straordinari.
Per questo ho creato il mio podcast “Un Mare di Storie”, in cui racconto il mare portando le persone sott’acqua e parlando alle loro orecchie. Sono storie brevi, solo pochi minuti, ma svelano curiosità affascinanti.
Ad esempio, lo sa che noi due siamo qui, a parlare in questo momento, grazie ai copepodi? Quegli esserini microscopici sono alla base della catena alimentare marina, e senza di loro la vita sulla Terra non sarebbe possibile. Eppure quasi nessuno li conosce. Se vogliamo proteggere il mare, dobbiamo prima imparare ad ascoltarlo.